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Epidemie e Confratelli

La storia della Misericordia si snoda anche attraverso le epidemie d’un tempo. E sono tanti gli accostamenti d’immagine che si possono fare ancor oggi tra simboli, divise, significati e prove testimoniali. Un mondo che, dal passato, ancora ci parla.

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La storia della Misericordia – anche di quella di Arezzo – è strettamente collegabile alla storia delle epidemie del passato. E molti accostamenti d’immagine e significati sono rintracciabili ancor oggi in tema di distanziamento, isolamento, dispositivi di protezione individuali e perfino vesti ed equipaggiamenti di servizio. Insieme a sorprendenti prove testimoniali che suonano come altrettante conferme documentali.

Basterebbe rifarsi ai motivi fondanti della nascita stessa del movimento delle Misericordie, che ad Arezzo data addirittura il 1315: una delle più antiche. Primo compito dei confratelli fu certamente il soccorso agli ammalati, la sepoltura dei morti in povertà; ma anche il trasporto degli infermi, l’assistenza agli affamati, il fornire doti alle fanciulle povere, l’affrancamento dai debiti per i carcerati, i sussidi ai malati indigenti. Una serie d’impegni nel sociale che videro l’acme proprio quando tali bisogni si fecero più accentuati, per esempio durante la peste del 1325, a Firenze. Così in tutte le ondate di “peste nera” che a più riprese – un terzo degli europei perirono già solo tra il 1334 e il 1372! – finirono per affliggere anche ogni altra zona della Toscana nei secoli successivi. E ad Arezzo i confratelli si distinsero nella “peste” del 1855, che colpì duramente la nostra zona, causando la morte di 8 confratelli per aver contratto la malattia, con ogni probabilità contagiatisi proprio durante l’esercizio dei loro servizi.

Abbigliamenti speciali, divenuti storiche “divise” dei volontari soccorritori nella Misericordia, come la cappa o “buffa” a sovrastare la tunica – dapprima rosse, poi soprattutto nere – ebbero sia una funzione autoprotettiva sia di conservazione dell’anonimato, un valore particolarmente caro al mondo della Misericordia, in ragione del quale nulla del soccorritore doveva lasciarne trapelare l’identità e neppure il ceto sociale d’appartenenza, in omaggio al motto di “la solidarietà non ha volto”. Così inoltre chi veniva soccorso non contraeva alcun vincolo di gratitudine verso il suo benefattore, non doveva cioè sentirsi obbligato nei confronti di nessuno. Il vero bene altrui si compie senza nulla aspettarsi in cambio. Neppure un “grazie”.

Una simile divisa riconosce un contraltare, o forse una variante, in quella dei cosiddetti “medici della peste”, con caratteristiche dettate più dalle esigenze del servizio che dalle regole della discrezione. Non a caso essi erano figure di esperti in medicina dell’epoca – più cerusici che scienziati – dotati di quell’inquietante maschera con la forma del naso a becco d’uccello particolarmente pronunciato: serviva a creare una cavità davanti al naso di chi la indossava che veniva riempita di spezie e aromi vari, di essenze ritenute balsamiche, in grado di “purificare” l’aria prima che arrivasse alle narici e ai polmoni.

Infatti, in epoca precedente alla scoperta dei “germi”, si riteneva che la causa della malattia epidemica si trasmettesse attraverso i “miasmi”, ossia effluvi maleodoranti prodotti dagli ammalati e veicolati dall’aria, espressione di uno squilibrio dei fluidi interni al loro corpo “guastato” dal morbo. Nella “teriaca”, un composto usato appunto per riempire il nasone della maschera in modo da costringere l’aria a circolarvi prima di essere respirata, erano comprese ben 55 erbe. La maschera copriva completamente la bocca, in modo che l’aria respirata arrivasse comunque dal lungo becco. (I profumi dolci e pungenti in particolare erano ritenuti i più capaci di “disinfestare” addirittura le aree e gli ambienti colpiti dalla malattia, proteggendo chi vi respirava).

La divisa era completata da un cappello a larghe falde, una sorta di occhiale solidale alla maschera stessa e – secondo le precise indicazioni attribuite al medico seicentesco Charles de Lorme – “un cappotto ricoperto di cera profumata, calzoni alla zuava legati agli stivali, una camicia infilata nei pantaloni, e cappello e guanti in pelle di capra”. Il medico della peste era infine dotato di una verga, sia distintiva del proprio ruolo sia utile a percuotere gli altri, per dissuadere chiunque dall’avvicinarsi troppo, respingendolo a distanza di sicurezza. (E’ probabile che l’aspetto stesso della maschera, così sinistro, volesse in qualche modo richiamare nell’immaginario collettivo “lo spettro della morte”, contribuendo in tal modo a tenere tutti più alla larga …).

Una conosciutissima maschera della commedia dell’arte carnevalesca di Venezia ne rievoca ancora oggi le potenzialità esorcizzanti sulla paura della morte con cui è sopravvissuta al tempo.

In breve, anche prima della peste bubbonica era già risaputa l’utilità del distanziamento e dell’isolamento, del frapporre barriere al contagio, accorgimenti poi condensati nella “quarantena”; così come era chiaro il giovamento conferito dalle protezioni individuali, ad evitare contatti con gli infetti, i loro congiunti, il loro vestiario e i loro ambienti; anche se non si conosceva il vero motivo di tale efficacia.

Al punto che non sempre veniva riscontrata: per esempio, fallì contro la febbre gialla e contro il colera. Della prima si ignorava infatti che fosse dovuta a un arbovirus veicolato dalle zanzare e del secondo non si sapeva che la vera via di trasmissione del suo agente causale, il vibrione colerigeno, fosse l’acqua anziché l’aria. Ma tant’è…

Inoltre, le caratteristiche della divisa del “medico della peste” rendevano conto anche di alcune prerogative del suo ruolo, tra cui prescrivere quelle che erano ritenute “invenzioni” in grado di funzionare da “antidoti” contro la peste, testimoniare gli ultimi desideri dei malati e svolgere le autopsie sui cadaveri.

Ma nella sostanza l’avvento di una medicina più moderna mostrò sempre di più tutti i limiti della quarantena, se ritenuta l’unico rimedio su cui fondare la lotta a una epidemia: tanto che già dai primi del 900 prese a circolare il detto secondo cui “la quarantena è solo la prova dell’ignoranza della medicina sulle cause e i rimedi contro epidemie e pandemie”. Un giudizio che – mutatis mutandis – potrebbe essere espresso ancora oggi?

Tornando alla Misericordia, all’interno della sede di quella di Arezzo c’è un tesoro d’informazioni in merito all’epidemie del passato, tra cui il più spettacolare è una grande lapide marmorea affissa proprio dietro l’odierna accettazione, dov’è incisa la scritta seguente: 

«COMUNE di AREZZO – Adunanza del Consiglio Comunale del 5 ottobre 1855

“Il Signor Cavalier Gonfaloniere rappresentava che quando una Pia Aggregazione instituita per il pubblico bene si è resa meritevole in circostanze infelici e straordinarie, della gratitudine dei suoi concittadini, è dovere del Corpo Municipale, che la Città rappresenta, di essere interprete della comune riconoscenza.

Gravemente, e per tempo non breve, Noi fummo percossi dal morbo contagioso che invase la Toscana e Noi tutti fummo testimoni con quanto zelo infaticabile, e manifesto pericolo della vita in tutti i giorni e in tutte le ore, nella Città e nelle Vicinanze questa Confraternita di Misericordia e Morte corresse in soccorso dei malati, specialmente poveri. Questa operosa sollecitudine salvò certamente la vita a molti infelici, ai quali se fosse tardato il soccorso sarebbe stata sicura la morte. Iddio può solo ricambiare degnamente sì nobile sacrificio: a Noi non rimane che ammirarlo e mostrarcene grati, e perciò si propone alle Signorie Vostre di votare pubbliche solenni grazie alla Venerabile Compagnia; la quale, animata da vero spirito di Cristiana Carità adempì così degnamente e utilmente alla sua santa Instituzione .

I Signori adunati con unanimi suffragi dichiarano che la Pia Fraternita di Misericordia e Morte di questa Città si è resa benemerita della Patria per cui Le rendono pubblici ringraziamenti, ed ordinano che questa Deliberazione sia trasmessa al Sig. Cav. Governatore del Pio Instituto .

Cav. Giovanni Battista Occhini, Gonfaloniere. Ranieri Falchi, Cancelliere.

Adunanza del 23 Novembre 1855 del Consiglio Direttivo della Confraternita di Misericordia e Morte di Arezzo.

Il Consiglio, ritenendo che premio sufficiente delle azioni generose è la coscienza di averle operate, pure, per tener vivo lo zelo sacrosanto verso così Pia Instituzione, decreta che sia resa pubblica testimonianza di gratitudine a tutti i Fratelli i quali in sì luttuosa emergenza, spinti più dal sentimento di carità verso i propri simili che resi guardinghi dall’istinto della conservazione della propria vita, si offrirono al disimpegno del gravoso servizio di notte. – Decreta inoltre l’affissione nelle stanze della Confraternita dell’elenco dei Fratelli volontari aggiungendovi anche il nome di quelli intervenuti al servizio notturno e facendo menzione speciale dei Fratelli volontari vittime del morbo asiatico. Il Governatore Albergotto Albergotti – Il Cancelliere Giovanni Becattini.»

Segue elenco nominativo completo di 123 Confratelli registrati al servizio notturno. A fianco di alcuni di essi c’è il simbolo di una piccola croce. E la stesura termina con questa legenda: «La croce indica quei Fratelli che caddero vittima del Cholera.»

La Misericordia si distinse in epoca meno remota anche durante la famigerata pandemia di Spagnola, un’influenza virale che si portò via in tutto il mondo un quantitativo spropositato di esseri umani, certo non inferiore ai 50 milioni di individui, difficile da stimare con maggior esattezza anche perché l’infezione calò sui paesi appena reduci dalla Grande Guerra e si sovrappose nelle conseguenze a quelle già drammatiche del primo conflitto mondiale, con condizioni di vita inimmaginabili. Fatto sta che, soprattutto relativamente agli anni 1918, 1919, 1920 e anche 1921 – quelli di massima incidenza della pandemia – esistono in Misericordia di Arezzo documenti a diario di vario genere. Quaderni di registro per forniture, note di carico e scarico per scambi di materiali vari con la popolazione e le altre strutture cittadine, tracciature completa delle offerte e destinazioni d’impiego degli aiuti, verbali delle deliberazioni assunte dai consigli direttivi del periodo ecc.

Un patrimonio di conoscenze che ancora ci parla, raccontandoci di una disponibilità all’aiuto verso gli altri – specialmente gli ultimi e i più bisognosi – e dello spirito di servizio espresso al fianco delle Istituzioni; cose che fanno da sempre la cifra distintiva e identitaria di questa nostra Associazione.

Altrettanti aspetti su cui senz’altro torneremo volentieri in futuro con ulteriori approfondimenti.

Ultima revisione 6/4/2021

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