Notizie davvero buone dopo alcune deludenti. E tutto deriva dagli studi scientifici continui sul plasma iperimmune, aiutati in maniera determinante dalle donazioni di plasma ed emocomponenti di pazienti in convalescenza o guariti dalla COVID19.
Come ormai sappiamo – ne abbiamo parlato proprio su queste nostre pagine virtuali fin dalle fuorvianti diatribe nel corso della prima ondata, al fine di chiarirle – sono da molti mesi in corso numerose vere ricerche, anche a livello internazionale, circa gli effetti del plasma estratto da pazienti in convalescenza o guariti da COVID19.
Gli studi si sono via via concentrati sempre di più nel tentativo di individuare non solo “se” il plasma iperimmune, cioè con alto titolo di anticorpi ad effetto neutralizzante sul virus, funzionasse come cura, ma soprattutto “in quali fasi” della malattia.
Ed ecco che, dopo le conclusioni deludenti di ben tre studi di livello internazionale pubblicati su altrettante riviste scientifiche che appuravano come sostanzialmente non si fossero registrate differenze significative nei risultati dei gruppi di controllo tra i somministrati con plasma iperimmune e i placebo, studi che tuttavia non erano particolarmente focalizzati sullo stadio della malattia e riguardavano perciò tendenzialmente pazienti già gravi, una ricerca pubblicata recentemente su NEJM ha analizzato l'effetto della terapia col plasma in adulti che avevano manifestato sintomi di COVID19 da non oltre 72 ore.
La differenza dagli altri studi è cioè consistita proprio in questo: nel concentrarsi su cosa accadesse quando il plasma fosse impiegato in fase precoce, per prevenire la sintomatologia più severa, considerato che nei pazienti già gravi i trial clinici non avevano dato buoni risultati. Ebbene – come in fondo ci si aspettava ed era stato auspicato – i risultati sono stati in questo caso molto buoni e si tratta stavolta non di osservazioni singole bensì di acquisizioni ottenute con metodo scientifico: “il plasma iperimmune somministrato in fase precoce riduce in maniera significativa il rischio di peggiorare”.
La strada perciò ora è aperta a un utilizzo del plasma iperimmune del tutto diverso ed è assai probabile che in tal modo lo si possa considerare finalmente una terapia efficace: cioè non nei pazienti gravi, ma in quelli in fase ancora precoce di malattia o addirittura solo a rischio di sviluppare sintomi. Il che significherà prevenire aggravamenti e quindi scongiurare decessi, invalidità e ospedalizzazioni.
Che poi in fondo è un po’ la linea che si sta seguendo anche con gli anticorpi monoclonali, la cui produzione in forma di vero e proprio farmaco è ormai molto vicina – si parla di un periodo tra marzo e maggio prossimi – proprio a cura di un gruppo di ricercatori nostrano, di Siena, il team Toscana Life Sciences capeggiato dal prof. Rino Rappuoli per conto di GlaxoSmithKline: la scoperta e messa a punto di questo anticorpo “superpotente” è considerata di una rilevanza massima, seconda solo a quella del vaccino.
Tra l’altro, ulteriore buona notizia in merito è anche quella in base alla quale già un secondo farmaco composto da anticorpi monoclonali – che ridurrebbe del 70% ospedalizzazioni e decessi – è in dirittura d’arrivo a cura della farmaceutica Eli-Lilly, in quel dell’italianissima Latina.
Aggiungiamo una nota di curiosità sul plasma che mette all’angolo le strampalate idee dei cosiddetti “complottisti”: il suddetto studio sul plasma iperimmune pubblicato da NEJM è stato finanziato dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, che quindi non ha alcun interesse ad "affossare" la terapia low cost col plasma! (Romano Barluzzi)
Ultima revisione 31/1/2021
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Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
(Lc 10,34)