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Il “groviera” anti-COVID

Sono giorni difficili, questi, come lo è informarsi correttamente. E vengono spesso diffuse impropriamente sensazioni rassicuranti o al contrario di timore che possono essere altrettanto infondate. Ecco qualche esempio facile facile. E una sola soluzione… a base di groviera!

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Mentre è ancora nell’aria l’eco di screening con test sierologici pungidito del tutto impropri per fare diagnosi e la gente viene lasciata naturalmente cadere nell’equivoco; e mentre cominciano a essere più noti i tamponi antigenici rapidi, questi si diagnostici e tuttavia neanch’essi privi di limiti che andrebbero conosciuti meglio, si fa strada un’aspettativa sempre più ampia e ottimistica circa la vaccinazione, come se tutto si potesse giocare finalmente sull’attraente sogno di una prossima imminente immunità collettiva.

Intanto, complice una certa tendenza – al momento più apparente che sostanziale – alla riduzione dei contagi, si fanno molti meno tamponi molecolari al giorno e ancor meno se ne processano… errore strategico già visto verificarsi dopo la prima ondata!

Ma davvero poche cose sono come sembrano, in questa oscura vicenda che ci affligge; e l’informazione imperante non riesce – almeno a livello istituzionale – a conquistare il centro del palcoscenico per trasmettere i giusti messaggi.

Ad attrarre il pubblico ci riesce piuttosto la solita passerella di personaggi a caccia di notorietà – talvolta, ahimé, anche illustri espertoni, magari in vena di tentazioni politiche – e una massa di media, specialmente quelli televisivi, che invece di fare corretta divulgazione scientifica, fomentano scontri verbali ideologici e urla in diretta a favore di telecamera per ovvie ragioni di audience.

Non parliamo poi della politica vera e propria, che se la gioca tra il panico dei decisori, l’inesperienza in testing dei loro consiglieri e la viltà delle opposizioni. Riuscendo peraltro solo a criminalizzare i cittadini che non usano correttamente un DPI e quelli che non osservano le norme emesse, sebbene appaiano sempre più astruse. Salvo non sostenere mai abbastanza convintamente il ruolo chiave della medicina del territorio in questa vicenda (insufficienza del tracciamento, flop dell’App Immuni, carenza di personale specificamente dedicato, aggravio dei medici di famiglia, quasi ovunque troppo poche macchine per processare più test tamponi ecc), dimostrando ancor oggi l’assenza di una strategia almeno di medio termine. 

La realtà, al netto di fronzoli inutili, lustrini di ottimismo e facile lacrima a comando, è fatta invece di poche fondatezze scientifiche, che nulla hanno a che vedere né con le certezze preconcette né con il dubbio a tutti i costi. Così va a finire che chi ci capisce qualcosa è bravo!

Ora, lungi dal perseguire questa ambizione di bravura – anche perché non ce ne sarebbe bisogno, basterebbe stare un po’ più “svegli” con la testa e soppesare le informazioni in arrivo alla luce se non altro della coerenza o meno delle fonti – vediamo cosa si può riassumere dell’attualità della situazione.

FARMACI e CURE – Dopo tante segnalazioni promettenti e altrettante smentite alla luce delle prove condotte con criteri di obiettività scientifici, nel setaccio dei clinici restano pochi granuli d’oro, cioè pochissimi presidi terapeutici, la cui efficacia era peraltro già nota anche in moltissime altre sindromi: ossigeno ad alti flussi, cortisone, eparina e non più di un unico antivirale, chiamato “favipiravir”, analogo al precedente “remdesivir” ma probabilmente più attivo. Per il resto, tanta cura e perizia nei reparti di terapia intensiva, riguardo all’insieme delle tecniche di assistenza, che oggi certo si avvalgono di un’esperienza specifica vissuta sul campo durante la prima ondata.

PLASMA IPERIMMUNE – Sebbene sia al centro ancora di molti studi, tra cui quello assai ampio e articolato del progetto partito dall’università di Pisa chiamato in gergo “Tsunami” che fa appello alla donazione del sangue e del plasma da parte dei guariti e dei convalescenti da COVID19, di recente sono usciti a ruota uno dietro l’altro ben tre studi indipendenti di livello internazionale – pubblicati su tre delle più prestigiose riviste scientifiche – che testimoniano l’assenza di una reale e ripetibile efficacia attribuibile alla somministrazione di plasma iperimmune. Anche questo però non deve suonare come un disincentivo alla donazione, dopotutto gli emocomponenti e gli emoderivati servono comunque e sempre anche per molte altre applicazioni (compreso il campo degli anticorpi monoclonali, al punto successivo), ma pensiamo che la consapevolezza sulla realtà sia sempre l’opzione migliore.

ANTICORPO MONOCLONALE – E’ stata definita una scoperta eccezionale, seconda solo al vaccino, e la si deve a un gruppo di ricerca – di giovanissimi studiosi – di Siena, capeggiati dal prof. Rino Rappuoli, secondo il quale questo anticorpo specifico “superpotente” sarà disponibile da marzo in forma di farmaco. E sarà impiegabile soprattutto nelle fasi precoci della malattia (quando il vaccino sarebbe ormai inutile) essendo in grado di “stoppare la malattia”, di evitare cioè la deriva della sindrome verso le forme più gravi e dunque abbattendo il ricorso all’ospedalizzazione, alla terapia intensiva, nonché di conseguenza la letalità stessa ecc.

VACCINO – Il primo sarà disponibile alla somministrazione a partire dal “Vax Day”, stabilito convenzionalmente in data 27 dicembre 2020; poi, in concreto il 15 gennaio 2021, si comincerà con il personale sanitario e nelle RSA. Quel che quasi nessuno ancora dice è che, ammesso l’inizio della vaccinazione su ampia scala al 15 gennaio stesso come annunciato, fatti due conti, e considerando l’enormità dei problemi logistici e organizzativi che un’operazione di vaccinazione di massa mai tentata prima in epoca moderna comporterà, anche sommando l’immunità vaccinale con quella naturale di guariti e negativizzati, non riusciremo a raggiungere un’immunità di gruppo almeno significativa prima del prossimo autunno-inverno 2021 (e sarebbe comunque un bel record, secondo solo all’aver trovato un vaccino entro un anno dallo scoppio della pandemia: un evento, questo, che è già entrato nella storia della medicina). Invece, dobbiamo fare i conti subito con l’inevitabile e imminente impennata dell’influenza di stagione. E considerare attentamente l’eventualità di una mutazione maggiore del SARS-Cov-2, tale da alterarne il comportamento e la sensibilità al vaccino, anche se per quella in voga nelle ultime ore, detta “variante inglese”, non ci sono dati dimostrativi che lo sia o che facciano temere la sua fuoriuscita dalla copertura vaccinale.  

TEST – Premesso che i “sierologici” – sia i “pungidito” sia i venosi, come più volte abbiamo scritto – NON sono in alcun modo diagnostici e servono solo dal punto di vista epidemiologico, per di più in periodo di basso contagio e su larghissima scala di popolazione, si profilano sempre più adatti e fattibili i cosiddetti “antigenici rapidi” (a loro volta suddivisi in rinofaringei, solo nasali e in salivari, a seconda della localizzazione del prelievo-tampone). A fronte di grandi vantaggi, come il potere diagnostico, la maggior facilità di esecuzione – quelli salivari e i nasali potrebbero arrivare a essere addirittura autogestiti –, l’estrema rapidità del risultato (non richiedono laboratorio) e il costo assai più basso del molecolare classico, offrono grandi prospettive. Per contro, neanche la loro accuratezza è priva di falle, anzi: nel migliore dei casi, il livello diciamo così di precisione e di attendibilità del risultato è stimabile intorno ai 7 o 8 su 10. Significa che, pur se i foglietti illustrativi interni alle confezioni – tra l’altro regolarmente a marchio CE – descrivono un’accuratezza del 95%, secondo tutte le prove indipendenti, invece, su 10 test, 2 o 3 risultano falsati; il che non è certo poco. Tradotto ancor più grossolanamente, vuol dire che su 100 persone che si fanno questo test e risultano negative, circa 30 potrebbero invece essere positive, contagiose e non saperlo, anzi addirittura convincersi di essere “pulite”! Dunque la maggior validità diagnostica protettiva di questi test si ottiene ripetendoli con sistematicità: replicare l’esame ogni settimana, per esempio, per un tot numero di volte, compenserebbe con la quantità la percentuale d’errore del singolo test, abbattendola. In più, se ne otterrebbe un impiego davvero ottimizzato nel caso di gruppi di persone, come avviene nelle comunità: scuole, istituti, le stesse RSA ecc, ma anche porti e aeroporti. In ogni caso, il comportamento da evitare assolutamente è farsi un antigenico rapido per propria comodità prima di un qualsiasi ritrovo, anche domestico, se non tra già conviventi, onde sentirsi “puliti” e al sicuro preventivamente! Sarebbe un’illusione di protezione molto pericolosa, tra l’altro in grado anche inconsapevolmente di far abbassare la guardia su una o più delle normali cautele (distanziamento, mascherina, igiene…), con conseguenze potenzialmente gravi… basti pensare che quasi tutti i nuovi cluster (focolai) sono scoppiati dentro gruppi di persone, spesso familiari o plurifamiliari, causa la presenza accidentale anche di un solo super-diffusore (magari del tutto asintomatico).

LA SOLUZIONE, IN SINTESI: IL “GROVIERA”!

Su cosa ci resta di fare davvero affidamento, per ora e per un bel po’, secondo una prospettiva né pessimistica né ottimistica, ma fondatamente realistica? Sul… groviera! Tutti conosciamo lo squisito formaggio caratterizzato da avere tanti buchi al suo interno. Ebbene, nella biosicurezza di questa vicenda COVID insiste proprio il cosiddetto “principio della fetta di groviera”. Ogni criterio di autoprotezione che poniamo in essere tra noi e il contagio è una fetta di groviera e come tale avrà dei buchi. Per esempio, la mascherina è una fetta, la prima. Se teniamo solo quella e non ne frapponiamo altre, per esempio se trascuriamo il distanziamento e l’igiene “tanto abbiamo la mascherina”, la probabilità che il virus penetri attraverso uno dei buchi della nostra unica fetta resta alta: e, se c’è solo quella fetta, presto lui in qualcuno di quei buchi ci si infilerà di certo. Se però mettiamo un’altra fetta, per esempio il distanziamento; e poi un’altra ancora, tipo l’igiene di mani e superfici; e magari un’altra, come l’autoisolamento ecc, vedremo che i buchi tra le fette non sono contigui e così, aumentando le fette, tendono a scomparire, cioè i passaggi possibili al virus tendono a diradarsi e infine a sparire. Ecco: i test antigenici rapidi ripetuti sono altrettante “fette di groviera” da posizionare vantaggiosamente a nostro favore! Ma senza togliere le altre – altrimenti ricompaiono i buchi passanti – e dunque solo se consideriamo anche i tamponi antigenici come uno strumento in più anziché la panacea generale; soltanto così funzioneranno davvero nell’aumentare la sicurezza per noi e per chi ci sta a cuore. (Fonti: Sergio Pistoi; Antonella Viola; Roberta Villa; Enrico Bucci; Andrea Crisanti. Cercateli sul web, sui social e sulle testate on-line. Ma, già che ci siete, prima spegnete la TV!) A cura di Romano Barluzzi.

 

Ultima revisione 21/12/2020

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