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Test, tamponi & Co: le differenze spiegate facile

Anche nelle recenti esperienze di test e tamponi “all’aperto” – piazza Grande, Stazione FFSS ecc – sono in molti a chiedersi (e a chiederci) ancora che differenza c’è, quali opportunità offrono, i pro e i contro ecc. Proviamo a fare un nuovo chiarimento generale facile per tutti.

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“Quando un virus con la pistola incontra un essere umano con il fucile, il virus con la pistola è un virus morto”.

Perdonate questo stravolgimento – speriamo divertente – di una celebre citazione dal cinema western, ma ci serve per introdurre una utile premessa, ossia cosa accada davvero quando un virus (oppure un batterio, un parassita, insomma un “estraneo” ecc) entra in contatto con il nostro organismo, vi penetra, cioè “lo infetta”.

Accade questo: che soprattutto le parti superficiali esterne del virus, costituite da alcuni tipi di proteine e denominate “antigeni”, stimolano nell’organismo umano che le riconosce come “nemiche” la produzione di “anticorpi” che cercano di neutralizzarle.

(Oltretutto, tra queste proteine antigeniche, ci sono anche quelle che costituiscono le famose “spike”, ovvero quelle spicole che hanno la funzione di andarsi a collegare ai corrispondenti siti sulle cellule viventi da infettare per entrarvi, proprio come una chiave nella serratura della porta da aprire. Non a caso sono al centro di studi per trovare un anticorpo specifico, detto monoclonale, in grado di colpirle meglio di quanto l'organismo sappia fare in via naturale...)

Comunque è questa interazione senza esclusione di colpi tra organismo e agente infettante che caratterizza la cosiddetta “reazione antigene-anticorpo”, la quale a sua volta è parte della più complessa “reazione immunitaria”, che si completa con l’attivazione anche di speciali cellule, sempre in funzione difensiva, cioè per distruggere l’intruso.

Ecco perché, se gli equipaggiamenti offensivi dell’intruso consistono in quella pistola e l’armamentario che l’organismo gli oppone in propria difesa può contare su un fucile, la minaccia rappresentata dall’intruso viene eliminata o quantomeno mitigata. Altrimenti avrà invece la meglio l’ospite indesiderato.

Questa guerra silenziosa e invisibile è in atto costantemente dentro di noi, per tutta la vita: e il nostro organismo è una macchina talmente ben dotata da madre Natura che di solito il fucile ce lo ritroviamo per le mani noi. Non proprio sempre, però! Come purtroppo ci ha insegnato Sars-Cov-2.

Ora vi risulterà più facile capire il tema dell’articolo, cioè le differenze tra i vari test e i tamponi.

TEST SIEROLOGICI: ce ne sono fondamentalmente di due tipi.

Uno è quello che si esegue con la tecnica (innocua e indolore) del pungi-dito, detto anche “capillare”, sul genere degli stick glicemici: la minuscola gocciolina di sangue che si spreme dal polpastrello del dito proviene dal vaso capillare sottocutaneo punto e la si instilla in un rilevatore che nel giro di una manciata di minuti reagisce rilevando gli anticorpi che l’organismo ha prodotto se è stato infettato. In altre parole, il test, se positivo, indica che si è venuti in contatto con il virus in un passato più o meno recente. Si può anche stimare – seppur con approssimazione – se questo contatto c’è stato da poco o da molto tempo, perché gli anticorpi vengono prodotti in più riprese e ce ne sono di precoci (le “IgM” – immunoglobuline M) e di tardivi rispetto all’infezione (le “IgG” – immunoglobuline G); dunque, il prevalere dell’una o dell’altra categoria è un indice dell’anzianità dell’infezione: IgG prevalenti, infezione “antica”; IgM prevalenti, infezione recente.

L’altro tipo di test sierologico si fa su un prelievo effettuato da una vena del braccio, come quello delle normali analisi del sangue, perciò è detto anche “venoso”: serve sempre per rilevare gli anticorpi – e la loro tipologia – prodotti dall’organismo qualora sia venuto a contatto con il virus, ma è più accurato e preciso, perché il quantitativo di sangue esaminato è maggiore; richiede però più tempo per l’analisi.

Entrambe i “sierologici” sono detti così perché le frazioni anticorpali da cercare si trovano nella parte liquida del sangue circolante, cioè nel siero (quella sorta di “acqua di mare” in cui navigano le cellule e gli altri corpuscoli del sangue).

Nessuno dei due test sierologici può essere significativo del fatto che il virus sia presente, intero e attivo; dunque la positività ai test sierologici non può essere ritenuta diagnostica di malattia né di infezione in atto, e neppure della contagiosità, ma solo del fatto che ci sia stato un contatto pregresso con il virus oppure no.

Inoltre, c’è sui test tipo pungi-dito un margine di falsi esiti – sia in negativo sia in positivo – che abbassa l’attendibilità dei risultati.

Il valore dei test sierologici per il singolo individuo è dunque scarso ma, se effettuati su ampia scala (e ciò è possibile per la facilità d’impiego e il basso costo almeno di quelli a stick), possono rivestire una notevole importanza dal punto di vista epidemiologico, per capire le linee di diffusione del virus, per fare indagini di siero-prevalenza, per scoprire precocemente (sorveglianza attiva) almeno una quota di possibili nuovi focolai: l’eventuale positività a un test sierologico infatti avvia di solito al percorso di accertamenti che diventa anche diagnostico culminando con il tampone.

Scrive su Facebook la studiosa Antonella Viola: “Se faccio il test e sono negativa, può significare che: sono un falso negativo (ho il virus ma il test ha sbagliato, succede circa 1 volta su 20 o a seconda del test su 10); che ho il virus ma non ancora gli anticorpi; che ho avuto il virus ma non ho più gli anticorpi; che non ho il virus. Se faccio il test e sono positiva, può significare che: sono un falso positivo (mai visto il virus); sono stata in contatto con il virus e potrei averlo ancora o essere guarita. In caso di positività, si fa comunque il tampone.”  

TAMPONE: detto anche “tampone rino-faringeo”, o “test molecolare”, si svolge in realtà in due passaggi. Il primo consiste nel prelievo da fare strofinando l’estremità di un lungo cotton-fioc introdotto dalle cavità nasali, mandandolo a contatto con la parete posteriore della faringe.

L’introduzione, solitamente fastidiosa, in caso non sia agevole dal naso, può avvenire anche dalla bocca, o da entrambe.

La piccola quantità di muco, cellule e fluidi prelevati così dal rinofaringe che restano a imbibire il cotton-fioc possono contenere il virus attivo; perciò il secondo passaggio consiste nel mettere questo prelievo biologico in rapporto con un reagente molecolare che rivela la presenza del materiale genetico del virus (l’RNA), indice della sua capacità replicativa.

La positività sta pertanto a significare che il virus c’è, vivo e intero, e che presumibilmente è capace d’infettare: il tampone è perciò diagnostico dell’infezione/malattia in atto.

Il tampone rino-oro-faringeo può essere affetto da un margine di errore nei risultati anche ampio, ma dovuto essenzialmente al fattore umano, per via della difficile esecuzione del prelievo (ci vuole una certa destrezza nella manualità); per rivelarsi efficace, il prelievo necessita quindi di essere eseguito da personale preparato e adeguatamente protetto.

TEST SALIVARE o ANTIGENICO: stranamente ancora se ne parla soltanto e da troppo poco tempo, eppure ha appena ricevuto l’approvazione della FDA americana e ne esisterebbe una versione tutta italiana già brevettata da mesi.

Consiste in un prelievo eseguibile in maniera simile al tampone, riguardo alla tecnica del cotton-fioc, ma con una manovra molto più semplice – addirittura auto-gestibile – in quanto è sufficiente appoggiarlo e rullarlo sulla mucosa dell’interno bocca senza spingerlo oltre, dato che il virus è presente anche nelle secrezioni salivari.

Il prelievo viene poi processato mettendolo a contatto con un reagente che rileva direttamente o l’RNA virale (come il tampone classico ma più rapidamente) oppure le proteine antigeniche (gli antigeni) ugualmente caratteristiche del virus, quelle illustrate all’inizio, in premessa.

In tal modo il test è altrettanto specifico del tampone rino-faringeo ma in più riduce drasticamente i falsi risultati da errate manovre data la più semplice esecuzione del prelievo; infine il test è ben tollerato, si avvale di un’analisi rapida o rapidissima, non necessita di laboratori e ha un costo complessivo molto inferiore.

In caso di positività, essa è diagnostica della presenza del virus attivo, come per i tamponi; anche se qui da noi resterà comunque necessario fare il tampone faringeo per raffronto di validazione del risultato; ma ciò restringerà comunque il campo ai tamponi veramente indispensabili, risolvendo il collo di bottiglia che rallenta le nostre capacità diagnostiche, attualmente costituito proprio dalla cronica carenza del sistema tamponi, della connessa rete laboratoriale ecc.

A sintesi di tutto ciò, scrive ancora su Facebook la ricercatrice Antonella Viola: «I test rapidi invece (i cosiddetti “salivari” o “antigenici” – ndr) servono a sostituire il tampone, vedono cioè se il virus c’è o non c’è. Alcuni funzionano “leggendo” il materiale genetico del virus (come il tampone ma più rapidamente) altri riconoscendo le proteine virali (come i test di gravidanza). Questi test potrebbero essere usati sui casi sospetti, sui contatti stretti o, con una strategia da definire, anche regolarmente sui docenti per identificare immediatamente i contagiati. Ma perché possano essere utilizzati, dobbiamo essere sicuri che funzionino bene. Serve quindi validarli, confrontandoli con il metodo classico del tampone.»

In pratica, si tratterebbe della soluzione definitiva per eccellenza, al fine del massimo valore sia soggettivo (potere diagnostico dell’infezione in atto) sia collettivo-epidemiologico di questi test, onde poterne eseguire molti di più e assicurare di orientare nella maniera più mirata l’indispensabile sorveglianza attiva sul territorio.

Si pensi soltanto che in questi giorni stiamo raggiungendo i 100mila test-tampone giornalieri effettuati e tracciati a livello nazionale, un numero che a prima vista sembra elevato, e magari in assoluto lo è, nel senso che il nostro modello italiano ha finora saputo tutto sommato proporne più degli altri Paesi; eppure è altrettanto vero che il prof. Andrea Crisanti, ribattezzato come “l’esperto le cui scelte epidemiologiche adottate dalla regione salvarono il Veneto nella prima parte della crisi epidemica”, di fatto uno dei pochissimi che le abbia azzeccate tutte fin da inizio epidemia (e restandosene quasi assente dai social!), ha già stimato che ne occorrerebbero almeno tre o quattro volte tanto, ossia 300-400mila al giorno, per rendere e mantenere adeguata la nostra capacità di testing all’attuale situazione!

Eh già, perché intanto i contagi continuano a essere in crescita da più di quattro settimane e risultano aumentati anche in quelle giornate in cui vengono eseguiti meno tamponi.

E mancano meno di due settimane alla riapertura delle scuole.

(A cura di Romano Barluzzi)  

Ultima revisione 1/9/2020

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