La sperimentazione del plasma tratto da pazienti guariti da COVID-19 per testarne le proprietà curative pare promettere bene. Basta attendere la valutazione finale dei dati raccolti. Detta così sembra facile, vero? La questione invece è diventata l'ennesimo caso di 'infodemia' tipica di questa crisi, rilanciando polemiche (infondate) tra esperti. Vediamo come.
Per capire meglio cosa sia successo serve rifarsi nientedimeno che alla notte di Natale del 1891, quando una bambina stava morendo per Difterite. Un medico di allora, Emil Von Behring, si fece venire in mente di prelevare sangue (e quindi siero e plasma) da malati che stavano guarendo – anche nelle peggiori malattie c’è sempre un certo numero di guarigioni spontanee – per inocularlo a malati di quella stessa malattia ancora gravi. Lo somministrò alla bambina ed ebbe successo: lei si salvò, lui dette origine a una pratica che poté subito evolversi – e trovare in seguito applicazione nel Tetano, nella Rabbia, nell’Epatite A, in quella B ecc – e nel 1901 ci vinse anche il premio Nobel per la Medicina.
“Niente di nuovo sotto il sole”, verrebbe quindi da dire? Non proprio: alcuni referenti delle zone di Pavia e Mantova – e ormai già svariati altri – hanno avuto l’intuizione di provare una moderna evoluzione di quella metodica nei casi più gravi ricoverati da loro per COVID-19, quindi praticamente in emergenza, descrivendone in modo comprovato risultati incoraggianti. E segnalandoli, affinché fosse avviata subito una procedura di sperimentazione su più ampia scala. Ne raccontiamo i vari passaggi, con report e citazioni di fonte, per demistificare l’ennesimo caso di pessima informazione circolata in merito. Un problema, questo, che affligge e accompagna la pandemia fin da prima che iniziasse e in modo altrettanto “virale” dello stesso virus SARS-Cov-2.
Si è conclusa la sperimentazione sull’utilizzo del plasma convalescente nei pazienti critici affetti da Covid-19. Lo studio, condotto congiuntamente al Policlinico San Matteo di Pavia a partire da marzo, ha visto il coinvolgimento di varie strutture dell’ospedale di Mantova: Immunoematologia e Medicina Trasfusionale, diretta da Massimo Franchini; Pneumologia, diretta da Giuseppe De Donno; Medicina di Laboratorio, diretta da Beatrice Caruso; Malattie Infettive, diretta da Salvatore Casari.
Attualmente è in corso l’analisi dei dati raccolti dagli specialisti nell’ambito del progetto e la successiva pubblicazione. Al servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del Carlo Poma sta intanto procedendo a pieno regime la raccolta del plasma da pazienti guariti, con un ritmo di 6-7 prelievi al giorno.
Una gara di solidarietà da parte dei donatori, ormai oltre 60, che si propongono anche da fuori provincia e da altre regioni italiane per offrire il prezioso emocomponente. A breve partiranno nuove sperimentazioni multicentriche, alle quali ASST di Mantova intende aderire per poter continuare a utilizzare questa importante terapia antivirale contro il coronavirus.
I professionisti dell’ASST ringraziano ufficialmente per la proficua collaborazione i colleghi di Pavia, con particolare riferimento al direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale Cesare Perotti e al responsabile del Laboratorio di Virologia Molecolare Fausto Baldanti.
L’antefatto: gira un video social del dr. De Donno, pneumologo di Mantova, dove egli muove dure rimostranze nei confronti del dr. Burioni, accusandolo in pratica di voler ostacolare la sperimentazione della pratica terapeutica a base di plasma da convalescenti. In realtà tuttavia il sito cacciatore di fakes “Bufale.net” riporta quanto segue:
«Una teoria estremamente interessante quella che ha preso piede in questi giorni con il Dr Giuseppe De Donno, in riferimento a un possibile rimedio contro il Coronavirus che ha dato vita anche a una presa di posizione da parte del noto virologo dr. Roberto Burioni.» Ma aggiunge immediatamente di seguito che: «Va precisato subito come da quest’ultimo (Burioni) non siano arrivati segnali di chiusura su quanto pervenuto da Mantova (…omissis…) ma evidentemente si è venuto a creare una sorta di fraintendimento che va per forza di cose approfondito.»
In sostanza, la questione è che il plasma tratto da pazienti guariti dal Coronavirus, secondo le osservazioni dei proponenti (dr. De Donno e altri, ASST di Mantova, ospedale S. Matteo di Pavia ecc), si mostra promettente nella possibilità di curare effettivamente i malati di COVID-19.
«Il dr. Burioni ne ha parlato di recente e il suo approccio allo studio del dr. De Donno non è stato per nulla negativo. O, quantomeno, non perentorio come avvenuto in altre circostanze, arrivando a parlare di un “qualcosa di serio e già utilizzato”. Certo, dal suo punto di vista resta una soluzione “d’emergenza e che non può essere utilizzata ad ampio spettro”. Evidentemente, questo ha scatenato la reazione dello pneumologo dr. De Donno che, infatti, ha avuto parole dure contro il dr. Burioni, accusandolo per le sue continue comparse in TV e per aver preso spesso e volentieri meriti altrui. Questo, in estrema sintesi, quanto avvenuto, con l’importante precisazione sul fatto che, fondamentalmente, il virologo non ha smentito gli studi di Mantova. La speranza è che, una volta chiarita la questione, si possa remare tutti verso la medesima direzione.»
L’intera vicenda trova finalmente composizione in trasmissione RAI “Che tempo che fa”, conduttore Fabio Fazio, ospite fisso lo stesso dr. Burioni, dove nella puntata del 5 maggio ci si collega in esterna direttamente con il sopracitato dr. Baldanti del San Matteo di Pavia.
Questi, con atteggiamento quanto mai sobrio e cauto, ha confermato che sono in corso le valutazioni sulla sperimentazione compiuta fin qui – la quale nel frattempo è stata richiesta ed estesa anche in altre realtà regionali – per poter trarre le dovute conclusioni in base a numeri certi.
Come lo stesso dr. Baldanti ha ricordato, non soltanto sappiamo che l’approccio terapeutico a base di siero o plasma estratti da guariti è noto da molto tempo, ma il punto è che si tratta di capire con esattezza, ed in seguito a studi obiettivi sulla maggior scala statistica possibile, in quali casi clinici e in che fasi della malattia sia davvero opportuna la somministrazione.
L’esperienza con altri virus infatti insegna che può non trattarsi affatto di una panacea generale: il cosiddetto “plasma iperimmune” ha mostrato la sua efficacia in malattie come Tetano, Rabbia, Epatite A ed Epatite B; in epoca più moderna pure su Ebola; ma s’è anche rivelato inutile nell’HIV e nell’Epatite C, così come nell’influenza di stagione; allo stesso tempo su SARS-1 ha fornito invece risultati alterni e incerti.
Riguardo al SARS-Cov-2 della COVID-19 ci sono solo studi cinesi circa alcuni report da piccoli numeri di pazienti alla volta, con esiti ancora più incerti: alcuni buoni, altri del tutto insoddisfacenti.
Inoltre l’attuale gruppo di studio del San Matteo ha trovato importante cercare di selezionare in particolare gli anticorpi cosiddetti neutralizzanti, cioè i più attivi contro il virus, in modo da ottenere un plasma in cui fossero più concentrati e che si potesse presumere della massima efficacia possibile: ma se davvero si rivelerà tale – come in effetti sembra incoraggiare a credere – potranno dircelo solo i numeri alle conclusioni dello studio, “sui quali preferisco sempre non pronunciarmi prematuramente”, ha correttamente sintetizzato il dr. Baldanti.
Ora, si potrebbe certo continuare ad alimentare la polemica – o riaccenderla – con una nota sui tempi della valutazione della ricerca, forse affetti dai soliti oneri burocratici tanto tipici del nostro Paese, anche perché la percezione dei giorni che passano in una fase e su un argomento di questo genere è facilmente esasperata; ma il fatto è che fin qui – ancora una volta – una pessima informazione, distorta e parziale, s’è resa del tutto fuorviante, alimentando il solito tifo da stadio su una questione invece fondamentalmente semplice: e cioè che esiste sempre una radicale differenza tra l’osservazione di un trattamento che funziona su qualche decina di pazienti, di un reparto, di una città, di uno specialista – o anche di due o tre – e il concetto di “terapia”.
Ovvero, si può giungere a stabilire che un certo protocollo terapeutico sia quello più efficace solo quando si arriva a pubblicarci uno studio sistematico condotto con criterio scientifico, perciò statisticamente significativo e condiviso nell’analisi dei dati con l’intera comunità scientifica, in modo che sia replicabile ovunque. Perché solo a questo punto si potrà esser certi di quando, su chi, su quanti e in che modo si rivelerà davvero “curativo”. Altrimenti si rischia solo di far sorgere false aspettative, la cui delusione poi sarebbe terribile.
Il tempo che lo studio e l’analisi richiedono ci si augura tutti che sia il più breve possibile, evitando che la giusta prudenza resti invischiata in inutili pastoie burocratiche; e nel caso in questione alcuni si sono sbilanciati a parlare di “pochi altri giorni” ancora; ma non bisogna dimenticare che un po’ ce ne vuole, di tempo, alla scienza proprio perché venga impiegato al meglio, nell’interesse – e a garanzia – di tutti.
(PS - Aggiornamento a oggi 12 maggio: anche in questi ultimi giorni tutti gli attori in gioco – vale a dire gli esperti citati – e anche molti altri hanno già più volte confermato sostanzialmente una linea condivisa di composizione delle opinioni riguardo alla plasma-terapia: in sintesi, “promettente, in attesa di conferma”. Analizzare le divergenze attribuite loro dalla solita iniziale disinformazione – mal gestita o in malafede rilanciata al solito fine di trasformare tutto in derby calcistico – è servito semmai per far emergere in anticipo ulteriori riflessioni sugli eventuali sviluppi del plasma iperimmune quale terapia. Ad esempio: il prepararne scorte, il fattore limitante della disponibilità di guariti donatori, l’indicazione clinica – in quale fase della malattia sia più opportuno – e perfino la prospettiva di studiarne concentrazioni realizzate in laboratorio per sintesi biochimica, cioè ottenerne un siero artificiale.)
Ultima revisione 12/5/2020
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Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
(Lc 10,34)