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Missione in Terra Santa

Il 'Progetto Betlemme' è il servizio in aiuto del prossimo nei luoghi sacri della cristianità ed è quanto i confratelli e le consorelle delle Misericordie d'Italia possono fare nella sede della prima Misericordia della Terra Santa, a Betlemme. Ecco la testimonianza dei nostri Antonella, Enrico e Sara, tornati da poco.

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Abbiamo preferito che raccontassero loro – in parole e immagini – ciò che forse non si può propriamente “raccontare”. Così che potessero esprimere anche ciò che sta tra le righe.

Antonella, Enrico e Sara sono stati gli ultimi tre nostri volontari, in ordine di tempo, a essersi avvicendati nel presidio della Misericordia in Terra Santa, nella sede di Betlemme, dove per ogni componente della Misericordia che lo desideri – previo incontro informativo e preparatorio preliminare – già da alcuni anni è possibile fare questa particolarissima esperienza.

Loro ci sono stati dal 21 al 29 dicembre 2018: quel che si dice “un Natale diverso”!

Già da prima che fossero partiti eravamo d’accordo sul fatto che avremmo potuto pubblicare un loro report sull’esperienza, ma appena rientrati, fin dai primissimi riscontri a caldo, ci siamo resi conto che non sarebbe stato così semplice come si sarebbe potuto credere. Vissuti così intensi hanno evidentemente bisogno di essere metabolizzati qualche giorno e restano comunque qualcosa di cui è molto difficile rendere l’idea. Poi il momento è arrivato e abbiamo confidato nell’essere in due “intervistatori” ad ascoltare il loro narrato ma soprattutto nelle capacità di racconto dei nostri tre “eroi”, forgiata dalla loro appartenenza al gruppo della “Valigia dei Sorrisi” e dal connesso loro operato come Clown Dottori. Perché, quando il racconto si fa emotivamente complesso e impegnativo, è bello alleggerirlo come si fa con i bambini. Che non perde certo d’efficacia, anzi, ne acquista.

Cominciamo con il riferire che i nostri a Betlemme hanno prestato il loro aiuto di volontari principalmente in tre strutture: la Casa di riposo Antonianum, una residenza per anziani; l’istituto Hogar, per bambini disabili; e la Casa della Pace-suore di Santa Teresa di Calcutta, dedicato a ospiti psichiatrici.

Passiamo così alla nostra raffica di domande con la più spontanea: “Perché siete voluti andare? Insomma, come siete transitati dalla prima idea del viaggio alla partenza?

“Mi ha fatto decidere la curiosità trasmessami da chi era già andato e tornato particolarmente emozionato nell’essersi reso utile in quei luoghi; e volevo anche mettermi un po’ in gioco come clown dottore, avendo saputo della presenza di bambini”, risponde subito Sara. Le fa eco Enrico: “Come lei! In particolare un collega clown dottore, il Dr. Alborella, che era stato 8 anni fa in Palestina, ne ha sempre avuto un ricordo speciale, ancora emozionato ogni volta che ne parlava, quindi m’ha incuriosito moltissimo”. Mentre Antonella aggiunge di “aver visto questo viaggio anche come una sorta di sfida, di richiamo personale”. Per poi anticiparci che “Non esistono parole abbastanza valide per descrivere le emozioni che ho percepito”, avendo comunque lei “desiderato di provare dal vivo di persona il rapporto con come aveva immaginato questa esperienza prima di farla”.

Unanime e condiviso l’obiettivo dichiarato, vissuto evidentemente anche come la più intensa motivazione alla missione: “Aiutare il prossimo e stare a fianco dei più deboli.” Anche in quei luoghi laggiù, all’interno d’un contesto così inconsueto.

 

Dei tre diversi ambiti visitati quale – e per cosa – v’è rimasto più impresso?, chiediamo di conseguenza…

“Prima impressione e cosa poi ti resta dentro maggiormente sono due aspetti che possono non coincidere – dice Enrico –. Per esempio, mentre all’Antonianum (l’istituto anziani) gli ospiti appaiono star bene, essere ben accuditi e seguiti e la sensazione è mediamente neutra (si vede subito che fargli un po’ di compagnia spesso è sufficiente), paragonabile a quella che desta una struttura simile delle nostre parti, con i bambini è molto migliore, perché sono bambini!...”

“Certo – aggiunge Sara – ti prendono il cuore, intorno a loro c’è un’atmosfera, un’energia più positiva”. “Ed è sempre più facile – conferma Antonella – strappargli un sorriso!...” Riprende la parola Enrico: “Pensa che siamo tornati tutti e tre ‘fidanzati’: io con Mora, Sara addirittura con due, Nacho e Mariam, e Antonella con Camillo!”

A detta di tutti e tre, invece, sono gli psichiatrici che destano la pena maggiore, in quanto meno seguiti… “Sono i più dimenticati, perché non strappano il cuore come i bambini. Sono lì un po’ lasciati a loro stessi. C’è un’aria come di desolazione, deprimente…”, riferisce Enrico. “Li vedi seduti a testa bassa, immobili, non fanno nulla, non sono in rapporto neanche tra l’uno e l’altro, e non sai cosa fare con loro… Mancano di qualunque afferenza sensoriale”, descrive Antonella, che come Enrico ricorda l’episodio emblematico di aver assistito alla scena in cui era stato uno degli stessi ospiti ad accompagnarne al bagno un altro!

Eppure… “Poi ci siamo accorti – fa Enrico – che, se ci interagivi, reagivano anche loro. E, sebbene fosse più complesso che coi bambini, anche loro giocavano!”

“Al punto che – aggiunge Antonella – alla fine tutto è apparso ancor più soddisfacente, sebbene più difficile, che con i bambini!”

“Quando siamo andati via – conclude Sara – ridevano tutti e abbiamo ballato insieme: l’atmosfera era completamente cambiata rispetto a quando eravamo arrivati!”

 

C’è stato qualche momento in cui abbiate sentito il bisogno di estraniarvi un po’, magari da soli?

(Prima ancora di rispondere a parole, tutti e tre scuotono la testa all’unisono… – ndr)

“Mai, in nessun giorno, in alcun momento. Questa esperienza l’abbiamo vissuta per intero sempre volentieri insieme. Aiutati anche dal fatto che, tranne uno smistamento del primo giorno, poi ci hanno sempre permesso di operare insieme, come avevamo richiesto”, rispondono più o meno con queste medesime parole tutti e tre i nostri ‘eroi’.

Enrico integra così: “mi son trovato a fare cose (come cambiare pannolini, cucire etichette ecc…) che, per quanto semplici, non avevo mai fatto… eppure mai ho avuto bisogno di isolarmi, né ho subìto alcun cedimento del classico tipo ‘ma chi me l’aveva fatto fare’; e tutto ciò 24 ore al giorno…sempre insieme”

“E’ stata – ed è – una grande squadra… non avrei potuto scegliermi persone migliori!”, sintetizzano sia Antonella che Sara, con Enrico che annuisce. Ed è quest’ultima a riassumere la metodica comune che li ha uniti e guidati di più nella missione: “In fondo, abbiamo cercato di essere ospiti sempre attenti a far sorridere, mentre altri visitatori non facevano che piangere…”

 

Come sono i luoghi dal punto di vista della sicurezza?

(Ormai tra i nostri tre è una rincorsa a esprimersi e diventa difficile distinguere “chi dice cosa”, così riferiamo cumulativamente…- ndr): “Il posto è del tutto tranquillo! Betlemme intera è tranquilla! Segni delle reali condizioni psicologiche che devono vivere i locali si immaginano soltanto, constatando alcune situazioni di fatto: per esempio, gli approvvigionamenti di acqua ed energia dipendono praticamente tutti da Israele. I Palestinesi hanno tratti e comportamenti apparentemente duri, ma poi in tanti sono stati gentili e disponili, con alcuni siamo rimasti ancora in contatto. Abbiamo avuto l’opportunità di una visita anche a Hebron e lì invece la tensione c’è, o perlomeno si percepisce di più… La zona è a popolazione mista. Si presenta fortemente militarizzata, il che mette un po’ a disagio e non vedi l’ora di allontanartene. Ma per tutto il resto non abbiamo avvertito mai alcun senso di rischio. Molto viene scongiurato anche dal ‘corso’ di preparazione alla partenza, un incontro svolto presso la sede della Confederazione delle Misericordie a Firenze, che è piucchealtro informativo e comportamentale, cioè vengono consigliate cose da fare e sconsigliate altre da non fare. Anche se nulla è come essere lì fisicamente e finché non ti ci trovi non puoi renderti conto. Al contempo, una volta lì tutto sembra fattibile, specie alla luce delle motivazioni che ti guidano.”

 

Cosa soprattutto avete riportato a casa di questa permanenza laggiù?

Sara: “Quando stai facendo quello di cui hai necessità non ti rendi conto di quanto sia emozionante, lo elabori dopo…”. “Allora scopri – continua Enrico – che è qualcosa che resta dentro profondamente: e ora vorremmo che avesse una continuità”. “La maggior insoddisfazione infatti – conclude Antonella – è stata quella d’esser rimasti lì solo una settimana: perciò vorremmo già tornarci!” (E il fatto di “non aver riportato tristezza bensì un grande arricchimento personale” lo dichiarano quasi in coro – ndr).

 

Ma pensate esista un modo di dare continuità anche qua a ciò che avete trattenuto di questa esperienza?

Enrico: “Certamente! Anzi, con questo viaggio ho riscoperto il senso del volontariato in senso puro. Che non ha né muri né confini. Poi il contesto è quello che fa la differenza del momento: persone in difficoltà ce ne sono tante anche qua, laggiù c’è che si sono incrociati millenni di storia, di guerre e di etnie… più tutti gli aspetti religiosi, tradizionali, culturali. Nel fare volontariato qui non cambia il valore di farlo, ma quel che possiamo aver riportato per riversarlo in quel che facciamo qua è come siamo migliorati noi, che motivazioni o modi nuovi di fare le cose possiamo mettere nella nostra attività.”

Antonella: “Infatti mi sono sentita ancora meglio, dopo questa esperienza, nel riprendere a fare volontariato qua da noi. Ti cambia la prospettiva di come farlo. Al confronto con come l’abbiamo svolto là, quello di qui oggi lo definirei un ‘volontariato protetto’: in Terra Santa sperimenti l’adattabilità a situazioni fuori dagli schemi, l’umiltà di avere meno mezzi a disposizione, la disponibilità a metterti in gioco di continuo e la volontà di andare oltre. Che poi alla fine è quanto riporti nel volontariato di casa nostra. Così lo fai ancor più volentieri di prima. Io so solo che volevo essere lì mentre vivevo quei momenti, stavo proprio bene lì. E oggi mi sento ancora meglio di prima nel volontariato di qua!”

Sara: “Pensa che da quest’anno è attiva la possibilità di fare perfino il Servizio Civile in Misericordia presso la sede di Betlemme. Ma anche a prescindere da questo mi sono fatta l’idea che tutti i volontari dovrebbero provare, almeno una volta nella vita. Oggi lo consiglierei vivamente a chiunque!”

Ci siamo sentiti in speciale empatia con i nostri tre amici, nell’ascoltarli in queste risposte, anche quando hanno ribadito che, per quanto potessero provare a raccontarla, questa esperienza sarebbe rimasta nel profondo soprattutto la loro, personale e privata. Ma i loro occhi durante il racconto narravano più delle loro parole. Ed erano gli stessi sguardi che avevano nelle foto da Betlemme di cui vi lasciamo in compagnia qui sotto. Gli occhi della serenità. (A cura di Romano Barluzzi e Lucia Graziotti)

Ultima revisione 24/1/2019

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